DOCUMENTO SULLA CAMPAGNA DI AUTOFINANZIAMENTO 2020/2021

Nei prossimi giorni il Centro Storico Lebowski lancerà la sua campagna di autofinanziamento per la stagione sportiva 2020/21.
Per il nostro Club sarà un momento storico, che segnerà un punto di svolta.
Per noi è arrivato il momento di raccogliere ciò che andiamo seminando: da dieci anni seminiamo sfide. Una sfida a noi stessi e, fuori dalla retorica o dall’autoesaltazione, al mondo dello sport.
Lavoriamo a questa campagna da mesi, possiamo dire che è stata concepita, non a caso, nei primi giorni dopo il lockdown.
Nei mesi della pandemia, fatta eccezione per la rubrica #acasacoldrugo, la nostra attività “pubblica” si era pressoché azzerata. Mentre le molte strutture della Cooperativa (dal Cda ai vari Comitati Operativi) lavoravano cercando di tenere il punto della situazione e di immaginare un futuro difficilmente prevedibile, le attività sociali, come quelle sportive, si erano dovute fermare. Questo stop obbligato ha stimolato in noi molte riflessioni sul ruolo che il Centro Storico Lebowski deve avere la responsabilità di incarnare in questo momento di crisi sanitaria, sociale ed economica.
Le riflessioni sulla pandemia che ha letteralmente travolto tutto il mondo e sulla sua gestione sono innumerevoli e complesse, ma la sensazione è che il cerchio si chiuda sempre nello stesso modo: anche se l’emergenza ha colpito ovunque con durezza, non è vero che di fronte ad essa siamo tutti e tutte uguali. La popolazione del Pianeta si divide infatti tra chi ha avuto e avrà la possibilità di curarsi con adeguati mezzi a disposizione e chi no; tra chi pagherà in modo sanguinoso la crisi economica e chi da essa si arricchirà ancor di più; tra chi soccomberà e chi no.
Se uno volesse essere cinico potrebbe sostenere che a quanto pare, in fondo, non ci sia niente di nuovo all’orizzonte. La pandemia e la sua gestione hanno semplicemente cristallizzato e fatto emergere le ingiustizie di questo mondo e del sistema che lo governa. Disuguaglianza, avidità, sopraffazione: la miseria che il capitalismo partorisce ogni santo giorno appare più che mai inattaccabile.
Ci hanno detto che siamo tutti sulla stessa barca e che basterà fare tutti insieme dei sacrifici per far sì che vada tutto bene.
Noi rifiutiamo questa visione.
A meno che non si fosse una delle persone impegnate a lavorare in ambito sanitario, con turni massacranti e dispositivi di protezione ai limiti del ridicolo a causa dei funesti tagli al sistema pubblico, o una di quelle costrette a rischiare il proprio contagio e quello dei propri familiari per permettere alla produzione di non bloccarsi, in quelle dure settimane di quarantena, ci sono state tante giornate in cui non c’era molto di meglio da fare che leggersi quintali di testi, sfoghi, documenti, rivendicazioni, riflessioni, soprattutto in rete. C’era uno slogan che ci è parso molto calzante e condivisibile: “non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema”.
Per noi questa frase significa molto, e principalmente ci ha stimolato due concetti:
– era ed è necessario entrare nell’ordine di idee che, nonostante quello che è successo sia stata definita un’emergenza, trattarla in modo “emergenziale” è reazionario. Quando arrivano un terremoto o un’alluvione che radono al suolo intere città, sterminando la popolazione e distruggendo intere comunità, viene allestito un bel campo per affrontare “l’emergenza”, si tirano su le casine di legno necessarie ad accogliere gli sfollati, e a qualche chilometro di distanza si continuano a costruire strutture non sicure e a devastare i territori, alimentando l’impotenza di fronte ai disastri naturali, esponendo le persone al rischio concreto di lasciarci le penne, sotto le macerie di scuole, case, ospedali e fabbriche. Tutto questo solo ed esclusivamente a beneficio dei profitti di chi investe. Questi esempi ricordano qualcosa? Questa è esattamente la normalità, e la crisi derivante dalla pandemia sta venendo trattata dalle istituzioni esattamente come viene trattato un terremoto o un’alluvione.
Le vittime del virus sono i morti sotto le macerie, la “nuova vita” sotto i tendoni e nelle casine di legno sono i sacrifici economici che il popolo sta sostenendo e dovrà sostenere, il numero dei contagi che diminuisce con un sistema sociale, sanitario ed economico che è tornato a essere quello di prima, sono le nuove piccole e grandi opere costruite al ribasso, con materiali scadenti, su territori idrogeologicamente devastati. Rende l’idea?
– il desiderio delle persone di tornare alla normalità, rischia di essere un’arma a doppio taglio: molti sono disposti a tutto, pur di vedere nuovamente al sicuro i propri piccoli e grandi privilegi, ma la pandemia dovrebbe averci insegnato che è proprio pensando “ognuno per sé” che si alimentano le disuguaglianze. Pretendere ciò che ci spetta da chi ha il potere non è bastato, e non basterà, perchè quando i diritti vengono riconosciuti solo ad alcuni e non a tutti, non sono più diritti, ma sono, appunto, privilegi.
Non è servito a niente essere noi, per un certo periodo di tempo, la fetta di pianeta più colpita da una catastrofe? A cosa è servito essere magari quelli che erano costretti a timbrare il cartellino in fabbrica, mentre gli altri avevano la possibilità di proteggersi “restando a casa”? A cosa è servito vedere le facce stravolte e ferite dalle mascherine di infermieri, addetti alle pulizie, operatori sanitari, medici, ascoltare le loro grida d’aiuto perché il personale e le attrezzature erano insufficienti? A cosa è servito sapere che nelle stanze di terapia intensiva si era costretti a scegliere chi curare, come in guerra, tra chi aveva più o meno possibilità di guarire?
Saremo tutti sulla stessa barca il giorno in cui avremo la capacità di pensarsi come parte di una comunità, lottando per gli altri come per sé stessi, invece di accorgerci delle ingiustizie solo nel momento in cui siamo noi a subirle, gridando al vento, annegando di fronte all’impassibilità di chi galleggia, che abbia sotto il culo una zattera o uno yacht di 40 metri. Saremo sulla stessa barca quando, oltre a pretendere di vedere riconosciuti i propri diritti, saremo capaci di lottare per costruire un benessere diffuso, il benessere di tutti.
Tentare di interpretare queste riflessioni e di portarle sui binari dell’azione del Centro Storico Lebowski può apparire forzato e magari qualcuno può pensare che lo sia. Forse qualcuno ritiene che dovremmo parlare solo di calcio, lasciando queste cose ad altri. Ma se qualcuno pensa questo, significa che non ha capito che cosa il Lebowski sta cercando di fare.
Noi pensiamo che il calcio sia, assieme a tante altre cose, un potente veicolo di trasformazione, di inclusione, di crescita. Non è solo far giocare i ragazzi e le ragazze con una bella cornice di pubblico, che ci rende tanto simpatici e carini. Noi crediamo nella forza della comunità, crediamo che attraverso i legami e l’azione collettiva si possano raggiungere piccole e grandi conquiste, si possano stanare ingiustizie, discriminazioni e infelicità, e insieme trasformarle. Si possa essere rivoluzionari. Crediamo che l’energia collettiva che si vive al Lebowski, nella militanza quotidiana o solo nel trascorrere una domenica diversa, debba essere portata fuori dai suoi confini e confrontata con la realtà, e poi riattivata nei rapporti e nelle scelte, negli stili di vita e nella presa di coscienza che il mondo, come il calcio, non ci piace così com’è ed è possibile e necessario cambiarlo. Il fine ultimo dell’esistenza del Lebowski è questo, sta scritto all’articolo 3 dello Statuto.
Cosa c’entra tutto questo con la campagna di autofinanziamento per la prossima stagione?
Diverse settimane fa, in diretta facebook, si era riunito il Comitato Regionale Toscano, ovvero la struttura locale della Lega Nazionale Dilettanti della FIGC. Il Comitato purtroppo non ha molte risorse per aiutare i Club in difficoltà: come per la sanità, anche il mondo dell’educazione e dello sport vedono diminuire il sostegno pubblico, come se non fossero le attività più importanti per la tenuta delle nostre comunità.
Il Comitato non ha potuto far altro che spendersi per facilitare il ricorso al credito da parte delle società sportive. Purtroppo, non possiamo non sottolineare la criticità di questa soluzione: le società sportive si indebiteranno per sopravvivere e saranno ancora più fragili negli anni a venire; sempre più energie saranno spese per trovare le risorse per non fallire; i territori saranno sempre più esposti al rischio di vedere scomparire luoghi fondamentali di socialità e di formazione come le società sportive sono.
Eccola qui, la normalità, quella a cui non vogliamo tornare. Costruire sul debito è esattamente il punto centrale della società odierna, arricchisce pochi e affama molti. Si parla di territori, di comunità, di fondamenta solide… e invece di fornire strumenti per costruirle non si può che consigliare alle società dilettantistiche di replicare esattamente i meccanismi del calcio professionistico, ormai preda dell’economia finanziaria, e stiamo vedendo proprio in questi giorni tutte le più grottesche storture di questo sistema. Non ci sono presidenti mecenati o grandi sponsor che in questo momento sono disposti a investire risorse? La soluzione è indebitarsi con le banche. Così, la sparizione dei club più deboli e i conseguenti danni alle comunità non saranno repentini, ma diluiti negli anni: i più deboli soccomberanno, i più forti sopravviveranno, fino alla prossima crisi. Eccola qui, la gestione emergenziale, ecco qui le casine in legno e il dissesto idrogeologico.
La nostra campagna di autofinanziamento è l’esito del nostro lungo lavoro sull’azionariato popolare e sulle decisioni collettive: la soluzione rivoluzionaria al calcio moderno. Niente di più, niente di meno. Ambizioso quanto semplice. Elencheremo i progetti e i valori a cui non possiamo rinunciare; renderemo pubbliche le spese che ci servono per realizzare questi progetti, coi tagli che la situazione richiede necessari e che saranno compensati con la militanza e con l’appartenenza al Club; avremo così una cifra che divideremo per 100. Il risultato sarà il numero delle socie e dei soci che dovranno versare 100 euro in favore della nostra Cooperativa per garantire l’attività della prossima stagione.
Siamo riusciti a fare la sagra di Settembre, ma non potremo contare su tutti gli altri principali eventi e su molte attività di autofinanziamento, questa è l’unica emergenza. I soci e chi ha a cuore l’esistenza del Lebowski parteciperanno con orgoglio alla campagna, e avremo dimostrato a noi stessi e al calcio dilettantistico che esiste un modo diverso, sostenibile, giusto, di qualità, per fare calcio. Se non ci dovessimo riuscire, abbasseremo la serranda con rammarico, ma fieramente. Lo diciamo da anni: una società sportiva deve investire nella sua attività non un euro in più di ciò che il territorio e la comunità che ne vive le sorti possa sostenere. Crediamo fermamente che questa sia l’unica strada percorribile, per il futuro del calcio, per la tenuta delle nostre comunità, per la vita nei nostri quartieri. La nostra lotta è valicare i confini, attivare meccanismi di solidarietà, valorizzare i legami e alimentare le spinte di rottura col presente. Dal piccolo della nostra esperienza, saremo idealmente e (dove possibile) logisticamente al fianco di chiunque dovesse essere interessato ad imboccare la strada della proprietà collettiva e dell’azionariato popolare.
Cercateci, confrontiamoci, organizziamo l’alternativa. Il calcio in Italia è la passione delle società dilettantistiche, siamo noi. E la passione può spingere le persone a fare cose mai viste prima.
È una battaglia di libertà. Dalla terza categoria fin lassù in cima. Il futuro nelle nostre mani.