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Pasolini e il calcio, 40 anni dopo

Un omaggio a Pasolini. Raccontando i cambiamenti del calcio e dell’Italia negli ultimi 40 anni

C’è una bellissima immagine di Pasolini che gioca a calcio. Sullo sfondo, un’Italia che sa ancora di boom edilizio; in primo piano un polveroso campo di periferia, dove Pasolini in giacca e cravatta insegue un pallone sulla fascia. Sembra un’immagine genuina, come la sua passione per lo sport; pare proprio che, al termine di una giornata alla macchina da scrivere, Pasolini non abbia resistito alla tentazione di fermarsi a giocare.

Del resto, Pasolini considerava lo sport anche come una forma di spontaneità da recuperare: in una società sempre più irrigidita, il calcio può farci tornare bambini, allentando la cravatta e le convenzioni. Il gioco è una dimensione repressa, giudicata come un comportamento deviato, fuori dalla norma. Come la sua omosessualità, del resto. E se la scrittura non può più essere catarsi, schiacciata da una critica intrinsecamente reazionaria, ecco che lo sport diventa anche una valvola di sfogo. O, parafrasando Totò, una livella che per 90’ azzera le distanze sociali tra il regista e i Ragazzi di vita; fino al fischio finale, e alla restaurazione. Quando Pasolini tornerà ad essere un frocio e gli altri finiranno per essere emarginati o risucchiati dalla maturità dell’Italietta benpensante.

Quaranta anni dopo, il gioco e il Paese sono cambiati. Ma non troppo.

Nessuno ha saputo anticiparne le trasformazioni, né tantomeno ha osato condannarle. L’Italia è un Paese che ha sempre emarginato analisi scomode, grazie a un collaudatissimo meccanismo autoassolutorio. Proprio la storia di Pasolini, dalla pubblica condanna alla riabilitazione, ne è il massimo esempio. Il successo dell’intellettuale è sempre postumo: il potenziale eversivo della critica è depotenziato, e si può tranquillamente elevare a rassicurante totem quella voce fino a poco prima repressa. Il critico è alla stregua di un semplice cronista, incapace di fornire un’interpretazione che sia appena scomoda per il potere.

L’ipocrisia del politically correct si è fatta egemonia culturale. Mentre il calcio è diventato un prodotto.

Lo spettacolo è diventato sempre più mediato, fino al paradosso di assistere alle partite guardando sullo schermo del proprio smartphone. L’appeal ha sostituito lo spettacolo: da forza eversiva, lo sport è diventato la prosecuzione dello status quo finanziario con altri mezzi. Tra capitalismo familista e brand da esportare, le squadre sono diventati multinazionali too big to fail: vietato perdere, impensabile non qualificarsi per l’Europa che conta, impossibile per una piccola sovvertire le gerarchie. Il sogno di Davide contro Golia diventa il monito a non alzare la testa, a non sognare troppo in grande: finché un emiro non vorrà acquistare la squadra. Sempre che il brand valga l’investimento, ovviamente.

Forse non ti avremmo ascoltato. Probabilmente avresti detto che il teatro si è fatto teatrino.

Adesso forse non lo guarderesti neanche più, il tuo Bologna. Costretto ad arrancare ricordando un passato troppo lontano, e troppo grande. Probabilmente ti saresti stancato anche dei ciclici scandali che riempiono i giornali estivi prima delle inevitabili amnistie autunnali. Il pallone ha perso la sua ingenuità, e magari te ne saresti accorto prima di noi.

Ma se passassi su un campo di periferia, ci troveresti ancora lì. Magari ti fermeresti con noi, e al diavolo la camicia stirata.

Alessandro Bezzi

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